«Arrendersi o perire!» fu l'intimazione che i partigiani quel giorno e in quelli immediatamente successivi diedero ai nazifascisti ancora in armi.[6]
«Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l'occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire.»
Torino, 6 maggio 1945. Sfilata della liberazione in piazza Vittorio Veneto
Entro il 1º maggio tutta l'Italia settentrionale fu liberata: Bologna (il 21 aprile), Genova (il 23 aprile) e Venezia (il 28 aprile).
La Liberazione mise così fine all'occupazione tedesca, a vent'anni di dittatura fascista e a cinque anni di guerra; la data del 25 aprile simbolicamente rappresenta il culmine della fase militare della Resistenza e l'avvio effettivo di una fase di governo da parte dei suoi rappresentanti, che porterà prima al referendum del 2 giugno 1946 per la scelta fra monarchia e repubblica, poi alla nascita della Repubblica Italiana, fino alla stesura definitiva della Costituzione.
Il termine effettivo della guerra sul territorio italiano, con la resa definitiva delle forze nazifasciste all'esercito alleato, si ebbe solo il 2 maggio, come stabilito formalmente dai rappresentanti delle forze in campo, durante la cosiddetta resa di Caserta, firmata il 29 aprile 1945; tali date segnano la sconfitta definitiva del nazismo e del fascismo in Italia.
«A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale.»
(Decreto legislativo luogotenenziale 22 aprile 1946, n. 185, art. 1[1])
Si ebbero decreti per celebrare la ricorrenza anche nel 1947[7] e nel 1948;[8] solo nel 1949 la ricorrenza venne istituzionalizzata stabilmente quale giorno festivo, insieme con la festa nazionale italiana del 2 giugno.[9]
Nel 1955, in occasione del decennale, il presidente del Consiglio Scelba rivolse un messaggio alla Nazione tramite la RAI.
«Se ricordiamo le tragiche vicende della più recente storia d'Italia non è per rinfocolare odi o riaprire ferite, coltivare la divisione, ma perché vano sarebbe il ricordo dei morti e la celebrazione dei sacrifici sofferti se non ne intendessimo il significato più genuino ed il valore immanente, se gli italiani non avessero a trar profitto dagli insegnamenti delle loro comuni esperienze, e, tra gli italiani, i giovani sopra tutto, a cui è servato l'avvenire della Patria.»
Nell'aprile dello stesso anno il Movimento Sociale Italiano portò avanti una campagna per l'abolizione dei festeggiamenti del 25 aprile tramite il «Secolo d'Italia», su iniziativa di Franz Turchi. Venne inoltre organizzata una celebrazione a Roma a ricordo dei caduti della Repubblica Sociale Italiana;[13] i saluti romani e i canti dei missini provocarono scontri con alcuni giovani comunisti che erano presenti.[14]
Nel 1960, quando era in discussione al Senato la fiducia al governo Tambroni con il sostegno parlamentare del Movimento Sociale Italiano, al momento delle celebrazioni della Liberazione i senatori del MSI uscirono dall'aula, accolti al rientro da commenti sarcastici (ad esempio è citato «Vi eravate squagliati, come d'abitudine» da parte del socialista Sansone).[15]
Sandro Pertini a Milano il 25 aprile 1973
Per la ricorrenza del 1973 Sandro Pertini tenne un discorso in piazza Duomo a Milano,[16] dopo le violenze del 12 aprile commesse da militanti di gruppi neofascisti e del MSI durante una manifestazione vietata dalla questura.
«Parliamo dunque di coloro che vorrebbero ancora una volta [...] uccidere la libertà, di questi sciagurati, rifiuti di fogna, che sono i neofascisti»
(dal discorso di Sandro Pertini, 25 aprile 1973[16])
Iniziative ufficiali
«Mostra del primo e del secondo Risorgimento», tenuta a Milano all'Arengario dal 21 aprile 1946.[17]
Non maledire questo nostro tempo, brano de I Gufi, inciso come singolo nel 1967 insieme a Soldati a me; lo stesso brano fu inciso con il titolo 25 Aprile 1945 da Milva e incluso nell'album Libertà (1975)
^«I membri del Governo Fascista e i gerarchi del fascismo colpevoli di aver contribuito alla soppressione delle garanzie costituzionali, di aver distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesso e tradito le sorti del Paese, e di averlo condotto all’attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte e, nei casi meno gravi, con l’ergastolo.» Cfr. Verso il governo del popolo, p. 325.
^Arrendersi o perire (PDF), in Avanti, 26 aprile 1945, p. 1. URL consultato il 22 aprile 2023.
^ G. Rodari, La madre del partigiano, in Pioniere, n. 10, 1954, p. 4.
Bibliografia
G. De Luna, Revisionismo e Resistenza, in A. Del Boca (a cura di), La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico, Vicenza, Neri Pozza, 2009, pp. 293-328, SBNIT\ICCU\IEI\0362079.