Al pari dell'amico Hou Hsiao-hsien, è il cineasta più rappresentativo del Nuovo Cinema di Taiwan, in particolare per l'esplorazione del rapporto tra memoria e presente, individui e metropoli, destini immersi nella solitudine e architetture postmoderne della città di Taipei. Nel 2000 vinse il premio per la regia al Festival di Cannes con Yi Yi - e uno... e due....
Nel 1949, dopo la caduta del governo nazionalista di Chiang Kai-shek, si trasferì con i genitori, funzionari di Stato, a Taiwan. Dopo la laurea in ingegneria elettronica, si trasferisce negli Stati Uniti per studiare informatica all'University of Southern California. Dopo gli studi lavora come tecnico informatico a Seattle, pur coltivando la sua passione per il cinema, il disegno e la musica classica[1].
Nel 1980, dopo 11 anni vissuti negli Stati Uniti, il suo amico Yu Wei-cheng lo induce a tornare a Taiwan per aiutarlo nella realizzazione di un film, The Winter of 1905; Yang viene citato nei titoli di testa come sceneggiatore e attore. Dirige in seguito un episodio per uno sceneggiato televisivo, e viene incaricato dalla Central Motion Picture Corporation di prendere parte a un film collettivo, In our time, di cui dirige l'episodio Zhiwang, che rievoca il passaggio all'adolescenza di una ragazza negli anni '60.
Il suo primo lungometraggio è del 1983, That day on the beach, che affronta la condizione delle donne moderne con una costruzione narrativa complessa che si ispira a Michelangelo Antonioni.
A Brighter Summer Day, del 1991, è un'evocazione della propria infanzia costruita attorno a un fatto di cronaca nera avvenuto negli anni '60. Il suo nome inizia a circolare all'estero grazie ai festival che accolgono il film. Nel 1994 il festival di Cannes proietta A confucian confusion, ambizioso affresco della società postmoderna taiwanese. Mahjong (1996) è un film comico di azione che si avvale della partecipazione della star francese Virginie Ledoyen.
Diversamente da Hou Hsiao-hsien, Edward Yang privilegia nel suo cinema la cultura urbana della Taiwan contemporanea, facendo del suo universo metropolitano il messaggio primario della sua stessa forma narrativa[4] e registrando impietosamente il vuoto che si stabilisce fra i suoi personaggi, e tra questi e lo spazio che li circonda.
«la ‘bellezza’ delle inquadrature di Yang, attratto da riflessi e superfici trasparenti, dalle geometrie che ingabbiano le persone, nasconde un contenuto disumanizzante, illusorio»
(A. Pezzotta, L’ironia di Edward Yang, Bianco&Nero, 2002, p.11)